Valeria Rubino, una giornalista italiana dentro l’NBA

Di Valeria Rubino colpisce subito il tono. Ha quella voce rapida e piena di parentesi, come se ogni aneddoto fosse un bivio, e ogni bivio valesse la pena. Il racconto della sua traiettoria professionale non è lineare, ma somiglia più a una serie di strade imboccate con curiosità, a volte per caso, a volte per ostinazione, che l’hanno portata da Napoli ai parquet dell’NBA, passando per un master a Miami e uno stage all’NBC.

«Io sono sempre stata un’atleta», comincia. «Nuotavo con la Nazionale di fondo, gare da 25 km, 5-7 ore a mare, laghi, fiumi. Una volta io e le altre ragazze della Nazionale ci siamo avvicinate troppo a dei cigni bellissimi e abbiamo preso le pulci dei cigni! E gareggiavamo anche nei fiumi, come il Guadalquivir, marrone e torbido. Roba da pazzi». E lo dice sorridendo, come se quella fatica fosse stata solo un’altra corsia verso quello che sarebbe diventata.

A Miami c’era andata anche per nuotare con la squadra universitaria, ma poi si era iscritta a un master in giornalismo televisivo. Scelto quasi per caso: aveva fatto anche domanda per altre facoltà, dice, dopo una tesi sull’Amazzonia. Ma ogni mattina, al campus, si sentiva in una puntata di Beverly Hills, e tanto bastava.

Poi succede di trovarsi in mano dei biglietti regalati da un amico di famiglia, posti vicinissimi al parquet dei Miami Heat. Da lì ha visto giocare Kobe Bryant per la prima volta, e qualcosa è scattato. «Mi ritrovo lì, con Kobe Bryant davanti a me. E da quel momento mi sono innamorata del basket. Di quel rumore lì, dello “scricchio” delle scarpe. In Italia avevo visto partite, certo, ma lì era un altro mondo. Un altro spettacolo». Le interviste con Kobe erano sempre in italiano. «La prima volta lo intervistai in corridoio — roba vietata, ma non lo sapevo — mentre era in procinto di andare a casa. E da allora era nata la tradizione del nostro linguaggio segreto», racconta con affetto.

La svolta arriva in uno shootaround. Qualcuno di ESPN le chiede se le va di vedere come funziona la produzione. «Io ho detto certo, e mi sono ritrovata a lavorare per ESPN. Non più a pagare i biglietti, ma pagata per stare lì». Poi TNT, Sunsports, e playoff in giro per gli Stati Uniti. Tutto sembrava andare bene.

«Poi ho lasciato tutto per venire a lavorare a New York, alla Rai. Come producer». Si ferma un attimo. «Ma non mi piace molto». Eppure, nonostante le difficoltà, ha continuato. Con L’Équipe TV, con LaPresse — dove era corrispondente di news, ma quando poteva infilava l’NBA — poi anche con BBC, ESPN e Todo Deporte, sempre con il basket. «Mi piace perché te lo devi sudare, il successo devi guadagnartelo, almeno un po’. È un mondo più pulito rispetto a quello della moda o dello spettacolo, che ho seguito con la Rai».

A sentirla parlare del basket, capisci che è qualcosa di più che passione. È un modo per stare al mondo. E quando le si chiede quale sia stata l’intervista più difficile da ottenere, parte subito con un ricordo nitido. Joakim Noah, appena eliminato dai playoff con i Bulls. «All’inizio mi disse no. Ero andata apposta. Gli dissi: “Capisco la delusione, ma questa è stata una stagione importante per te”. Lui si mise il cappuccio in testa, poi disse “Ok”. E accettò. Tutti i giornalisti francesi intorno a me restarono zitti. Mi dissero: “Brava, non voleva parlare con nessuno”».

La peggiore? Sorride. «Con Jimmy Butler. Era nervoso, si lamentava della squadra. Io gli metto il microfono e lui: “Questo microfono è troppo vicino!”». E la più emozionante? «Ogni volta che intervistavo Kobe. C’era un legame speciale. L’Italia, l’infanzia, i fondamentali che aveva imparato da noi. Rispondeva sempre in italiano. Faceva sorridere, ogni volta».

Valeria adesso vive a New York. Ha vissuto anche a Miami, due volte. «A un certo punto avevo deciso di smettere col giornalismo, ero stufa dell’ambiente dei media. Volevo fare real estate. Ho preso il patentino a New York. Ma poi… anche lì, stessi problemi. Clienti che volevano incontrarti a mezzanotte nelle suite degli hotel. E ho pensato: “No, torno a New York e ricomincio col giornalismo”».

Parlando del confronto tra Italia e Stati Uniti, è diretta. «Qui i giocatori sono più umani. Vanno per strada, si fermano coi bambini, firmano autografi. A Napoli conoscevo calciatori che potevano andare a cena solo nei giorni di chiusura dei ristoranti, per evitare problemi. Qui no. Anche i tifosi sono diversi. Ieri alla partita c’erano un sacco di maglie verdi dei Boston Celtics, e nessuno insultava nessuno».

A quel punto si apre la parentesi ViaggioSport, scritto tutto attaccato — o VSport, per farlo capire meglio agli americani — il suo progetto più personale. «A molti sembra strano unire viaggi e sport, ma sono le mie due passioni. Ora sto provando a fare due profili separati su Instagram, ma io sono così: mi piacciono i viaggi e adoro lo sport. Non vivo senza sport».

Spiega che non le interessa tanto il risultato delle partite. «A parte nei playoff, certo. Ma io voglio scoprire il messaggio, il percorso, i consigli per i giovani. Meno numeri, più lato umano».

E ai giovani che vogliono partire per l’America, cosa direbbe? «Fate un master qui, se potete. È un’esperienza straordinaria. E poi, lavorate con gli americani: c’è più possibilità di crescere.». Ma soprattutto, aggiunge, «restate fedeli ai vostri valori. Non accettate compromessi che vi fanno vergognare».

E poi c’è l’Africa. Negli ultimi anni l’NBA ha investito molto in Africa, creando la Basketball Africa League. «Vorrei raccontare cinque storie di giocatori africani arrivati in NBA. Far vedere come ce l’hanno fatta, cosa fanno per il loro paese, cosa sta facendo l’NBA. Perché dare un messaggio di speranza è bello. Anche se sei in un villaggio senza niente, puoi credere di farcela. Che sia nel basket o altrove». Ultimamente lavora anche con Seneweb. «Ieri ho intervistato l’unico senegalese al 100%. Mi fa troppo sorridere che mi ritrovo a lavorare per il Senegal. Non se l’aspettano da una bionda», aggiunge ridendo.

L’articolo Valeria Rubino, una giornalista italiana dentro l’NBA proviene da IlNewyorkese.

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